venerdì 27 marzo 2015

INTERVISTA AD ALESSANDRO ANSUINI – Smith & La Forgue Indipendent Press

Per intervistarti dovrò usare una serie di stratagemmi che impediscano a me, per primo, di anticipare le risposte. La prima domanda che ti faccio è: come è nato il progetto Smith & La Forgue, e a chi si rivolge?

Il progetto nasce sulla scia dei "Figli belli" di Mauro Mazzetti; lui faceva l'editore romantico con questi libretti fatti a mano, mi piacque l'idea e decisi di fare una casa editrice anche io. All'inizio editavo anche altri, producevo quattro copie del libro e le mandavo assieme alla matrice all'autore, che da quel momento poteva produrne a suo piacere. Poi ho capito che l'idea poteva funzionare anche per un solo autore, quindi divenne la mia casa editrice. In questo modo assecondo la mia pigrizia e stimolo quella degli altri. A chi si rivolge, chiedi. A chi leggerà i libri. L'idea è totalmente fuori dal mercato che non ha la pretesa di rivolgersi a qualcuno. Vive di sua spontanea volontà. 

Anche nel tuo caso ho la necessità di ambientare l’intervista: siamo in Alabama, seduti in un bar all’aperto con raffiche di polvere che ci arrivano addosso. Stai bevendo una tequila col verme dentro. Io un frappé. Che altro.

Secco la tequila, prendo il verme e te lo butto nel frappé. Da quel momento il tuo frappé avrà un nome, che è MCDONALD, e potrai venderlo alle gallerie d'arte a 5000 euro. Sei contento?


Sì. Mi dà il senso dell’Alabama. Adotterò quel verme, lo chiamerò Julio, lo porterò con me sempre, anche nel Wyoming. Senti, il primo libro che hai pubblicato? 

Non mi ricordo. Forse Asylum. 


Spiegaci la filiera del libro. Cosa accade dopo aver ottenuto il “prodotto” libro? Cosa fa l’editore per metterci a conoscenza dell’esistenza di un’opera?

Nulla, ci mancherebbe. La pubblicità è l'anima del commercio e il commercio con la scrittura non c'entra nulla. Infatti i libri si barattano con altre cose utili. Oppure, come faceva Mazzetti, si danno via a pochissimo così i ricchi non possono comprarli. Puoi provare a ordinarli su internet ma non ho tempo di spedirli. Quindi niente, se vieni a una lettura/concerto facile che li trovi, oppure guarda nelle metropolitane, qualcuno lì ne viene lasciato sempre. 

Quale libro ti piacerebbe aver editato, tra quelli presenti nel vasto panorama della pubblicazione mondiale? 

T.A.Z di Hakim Bey, ma un paio di copie credo di averle fatte.


Giuseppe Pontiggia, nel corso di un'intervista, confessò che durante le sue conferenze sulla scrittura al Teatro Verdi di Milano, c'era una frase ricorrente che spesso alla prima lezione sentiva dire dai partecipanti: “Io vorrei scrivere perché la mia vita è un romanzo." Cosa risponderesti?

E chi la diceva, lui o quelli che ascoltavano le conferenze? La tua vita non può essere un romanzo, nei romanzi le persone si rilassano; leggi che il tale si sedette su una panchina e si rilassò, e invece non è vero. Le cose che accadono nei romanzi non ti succedono nella vita o se ti succedono non te ne accorgi perché sono piene di persone che puzzano, e le cose sono tutte sporche, e ti gratti un inguine, per cui non t'accorgi di un cazzo. Quando scrivi tutto appare sotto una luce migliore, proprio perché lo scrivi, mica lo vivi.


Come si fa a capire, allora, quando l'idea per un romanzo è sufficientemente valida da meritare di essere ampliata e raccontata?

Non c'è modo. Come capisci quando un quadro è finito? Non potevi mettere un'altra pennellata lì? Certo che potevi. Non potevi metterne una in meno? Certo che potevi. Ma a un certo punto smetti e dici "ecco, ho finito". Sei un'artista, quindi ti lasciano fare. Sei un privilegiato mantenuto. Sei didascalico. Non nuoci a nessuno e se diventi pericoloso, come Saviano, dal tuo libro ci fanno un film. Il nostro sistema fagocita tutto. Per nostro intendo italiano. Noi italiani facciamo proprio ridere.


Qual è il tuo rapporto con la scrittura? Quali le tue abitudini, i tuoi spazi, i "riti" che quotidianamente ritrovi quando ti metti a scrivere?

Ho smesso di scrivere, sei o sette anni fa. Scrivere con l'intenzione di scrivere intendo. Adesso scrivo senza intenzione. Sono un uomo libero. Comunque la odio la scrittura, veramente.

Quali sono i tuoi autori di riferimento?

Nabokov e Rimbaud. Eliot e Djuna Barnes. Ma “riferimento” mi sembra azzardata come cosa. Ti ho detto autori che mi piacciono. Ne potevo dire altri. Tipo Simic. Che non è il terzino dell'Inter, per tua informazione.


Vedi. A volte. Per me Sliskovic rimane invece un punto fermo. Volevo chiederti tre consigli per chi scrive: cosa diresti a un giovane in cerca di editore?

Di prendere spunto da Gascoigne. Fare come Gascoigne garantisce vendite altissime e una prosa liquida. Giocare a testa alta. Prendere in giro gli arbitri. Non bisogna prendersi troppo sul serio, capisci. Le cose importanti sono altre, i tramonti, per esempio. O il pesce al vapore. Molto importanti sono anche le sciarpe quando fa molto freddo. Le altre cose sono sciocchezze.

Lo sai che sto rubando tutte le domande da una serie di interviste trovate in rete? Come vado?

Ecco perché mi stavo annoiando a morte. E perché al contempo stai scrivendo commenti su Facebook. Mi snobbi. Potrei risponderti qualsiasi cosa, come quando feci l'esame con Renzo De Felice all'università. Lui era un'eminenza, lo ricordi? Dissi parole a caso, quando le finii ricominciai, tanto lui non mi ascoltava. Presi 26.

Ricordo quell' anno all’università. Ci divisero. A me capitò di dover andare a fare un esame di diritto privato. Sapevo tutto. Mi misi seduto e improvvisamente ebbi la consapevolezza di dover fare scena muta. Di colpo mi resi conto che non aveva senso dire a quel signore le cose che sapevo. Le sapevo. A me bastava. Non dovevo dimostrare niente a nessuno. Perché ripetergliele e farmi dare un voto? Mica eravamo a Portobello. Uscii dall’aula e mi ritirai. Andai in segreteria a rifarmi dare il diploma, il giorno stesso. Mi dissero che ci sarebbero voluti venti giorni. Raccontai che sarei dovuto partire il giorno dopo per l’Australia. Me lo diedero.

Ti hanno minacciato dicendo che avresti perso tutti gli esami fatti? A me sì.

Non potevano. Ero immenso. Frequentavo da un anno senza aver dato alcun esame. Quello era il primo. Dell’Università mi piaceva la scalinata dell’Aula magna dove incontravo sempre un tizio, Stefano, un coreano.

Sì ma le domande?

Dovresti farmele tu. Mi sto annoiando. Domani forse passa Gaia qui da me. Dice se si sveglia.

Lei è un intervistatore pessimo, se lo faccia dire. Non è un caso che sia uscito dall'alberghiero con un misero 56.

Lo chiesi, il 56 e lo ottenni. Così come Lei, con il suo poco senso della misura, chiese e ottenne il 60. Fece incazzare mezza classe e rischiò la denuncia.

Va così da tutta una vita. Sarà stata quella volta a farmi montare la testa.

Comunque, amico Fritz, la volevo informare che ormai ci conosciamo da 22 anni e farle un’intervista mi risulta assai complicato. Mi viene spontaneo e istintivo trascendere o tornare agli episodi che hanno consolidato la nostra fratellanza. Mi saprebbe dire il momento più alto, in senso comico, della nostra amicizia?

Mi piacque molto quando mi affittasti gratuitamente la suite dell'albergo in cui lavoravi e ti raccomandasti di svuotare il frigobar e di non dichiarare niente alla Reception. Anche quando dovemmo mostrare al nostro editore le carte d'identità perché non credeva che esistessimo realmente fu divertente, anche perché parlammo di mignotte, se non sbaglio, volevamo che telefonassero a casa. Tu avevi preso appunti. Nel silenzio irreale dicesti: "La poesia deve essere microbiologicamente pura". C'era pure Pozzani. Non rise nessuno. Anche quando mi presentasti a Genova dicendo che "l'unica domanda da fare era come mai io scrivevo bene e loro male" fu divertente. Considerando che era la mia prima presentazione e che da 100 persone che c'erano ne hai fatte rimanere solamente dieci, possiamo dire che è andata bene. È finita l'intervista?

Sì.

Bene, che devo lavorare.

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